“Sui social sempre sorridenti? Parliamo della nostra depressione, è più utile”
L’esperienza di Silvia condivisa sui social network è la prova che non ci dovrebbe essere cosa più spontanea che parlare delle cose che ci fanno soffrire
Dire che è possibile parlare in tutta semplicità della propria salute mentale significherebbe mentire su una delle problematiche sociali più incisive del nostro Paese. Per questo quando Silvia Pomella, neo-alfiere della Repubblica, ha raccontato sui social di aver appena sconfitto la depressione dalla quale era afflitta da tempo, con tanto di foto scattata davanti all’istituto di neuropsichiatria infantile, l’ammirazione ha preso il sopravvento. La semplicità del suo gesto è uno schiaffo in faccia alla convinzione di dover sempre passare sotto silenzio questi disturbi, sminuiti e additati come segni di follia dalla società in cui viviamo. Una società che ci vuole forti ed inespugnabili, come se mostrare il proprio dolore alla luce del sole fosse indice di una debolezza che ci mina dall’interno, che ci rende meno umani di quel che siamo. Se è vero che “è okay non essere okay”, il messaggio della storia di Silvia varia leggermente questa massima: è okay dire pubblicamente di non essere okay. Ed è ciò che ha fatto in questa intervista.
“I problemi legati alla salute mentale sono iniziati già alle elementari, quando ho cominciato a soffrire profondamente d’ansia. Stavo a casa da scuola, avevo paura di uscire di casa e di stare da sola. Da piccoli è più strano rapportarsi a queste problematiche, non si riesce neanche a dare un nome a quello che si sente: infatti, prima di capire che cosa fosse l’ansia, dicevo di sentire dentro di me un “mostro”. La nota positiva della faccenda è che, essendo così piccola, non mi rendevo conto dello stigma che c’è nella società intorno a questo tema, così ho cominciato a parlarne liberamente fin da subito con i miei genitori, sviluppando un rapporto sincero con le mie difficoltà. Anni dopo, quando alle superiori il mio disturbo ansioso è tornato ed è sfociato nella depressione, mi è venuto naturale parlarne anche con insegnanti ed amici. Ciò mi ha permesso di ricevere subito l’aiuto di cui avevo bisogno: è stata la mia salvezza”
E ora come stai?
“Dopo il mio percorso di psicoterapia e di cure farmacologiche, sono guarita ufficialmente nel settembre dell’anno scorso. La data ufficiale di guarigione coincide con l’ultima visita fatta dallo psichiatra. Stavo bene già da prima, ma quando mi hanno dimesso è stato come se avessi ricominciato a respirare”
Immagino l’emozione che hai provato…
“Quando sono uscita dall’ambulatorio, ero felicissima. Ho sentito una voglia pazzesca di raccontare a tutti la mia esperienza. Nei mesi prima sui social avevo già pubblicato dei post inerenti alla salute mentale, ma senza parlare mai nello specifico di me: avevo paura delle opinioni degli altri. Mia madre era preoccupata che questa esposizione avesse delle ripercussioni sul mio futuro”
Che cosa ti ha fatto cambiare idea?
“Ho pensato che se in futuro non avrò delle proposte di lavoro perché a 16 anni sono caduta in depressione allora forse è meglio non avercelo proprio. Essere stata male quando ero piccola non significa che sarò malata per sempre. È prevalsa la voglia di condividere con gli altri quello che avevo vissuto, anche perché per colpa dei social pensiamo che tutti abbiano delle vite perfette, senza problemi. Io stessa guardando il mio profilo Instagram mi sono resa conto di pubblicare solo foto in cui sorrido, soprattutto nel periodo in cui non andava tutto bene. Così ho messo il post. Non è stato semplicissimo, non sapevo quali commenti aspettarmi”
E come hanno reagito gli altri leggendo quello che avevi scritto?
“Le risposte sono state estremamente positive, non riuscivo a credere a tutto l’affetto che stavo ricevendo. Quello che mi ha fatto riflettere è che uno dei commenti più frequenti, soprattutto su Facebook dove seguo amici di famiglia, è stato: “Non lo avrei mai detto, ti vedo sempre così sorridente”. Questa è la dimostrazione lampante del nostro rapporto con il concetto di salute mentale: basta mostrarsi sorridenti per dare l’idea che vada sempre tutto bene, quando in realtà spesso e volentieri non è così. Non ci si rende conto che dietro ad ogni post allegro o sorriso c’è un mondo che non si vede. Ci sono tante persone che soffrono e che non riescono a dirlo”
Pensi che il tuo post sia stato d’aiuto per qualcuno?
“Ho ricevuto tantissimi messaggi in chat privata dove le persone mi ringraziavano per aver raccontato la mia storia: avevano compreso di non essere le uniche a sentirsi così e che era possibile uscire da questa condizione. Non ho fatto quel post solo per gioire del traguardo che avevo raggiunto, ma anche per stare vicino a coloro che non riescono a dire nemmeno alla loro famiglia che soffrono. Ricevere quei messaggi è stato bellissimo, sarebbe una grande vittoria sapere che a qualcuno quel post è servito per chiedere aiuto”
Secondo te da dove nasce questo stigma che ci impedisce di parlare liberamente di come stiamo agli altri?
“Me lo sono chiesta molto spesso. Guardavo alla mia situazione e mi rendevo conto che la facilità che avevo avuto nel parlarne non era la stessa per le persone intorno a me: avevo avuto particolare fortuna. È una cosa che ci portiamo dietro da anni, abbiamo sempre associato il fatto di soffrire di disturbi mentali alla pazzia. D’altro canto, credo che ci sia una forte connessione con l’ideale di perfezione a cui pensiamo di dover arrivare: quando ci rendiamo conto di stare male, viviamo la nostra fragilità come una sconfitta. La nostra società ci chiede costantemente di dimostrare qualcosa, di dare una prestazione. Ammettere a se stessi di non poter stare sempre bene è complesso, pensa ammetterlo agli altri. Si teme molto di essere giudicati ed etichettati, cosa che nella nostra società tendiamo spesso a fare. Non ci rendiamo conto che i motivi per cui una persona può stare male sono infiniti e che dietro a ciascuno c’è una storia che non si può banalizzare riconducendo tutto ad un’unica causa. Preferiamo fermarci all’apparenza, non siamo disposti a scavare più a fondo: così si crea poi lo stigma”
Non succede lo stesso quando si tratta di malattie fisiche…
“È quello che mi fa particolarmente arrabbiare. Perché se stiamo male fisicamente non dobbiamo giustificarci mentre per i disturbi mentali dobbiamo sempre spiegare da dove deriva il nostro malessere? Questo succede perché non riusciamo a concepirli ancora come malattie vere e proprie”
Forse perché è qualcosa che non si riesce a vedere...
“Assolutamente. Sento persone dire “è tutto nella tua testa” oppure “te lo stai inventando”. Sicuramente è nella mia testa, ma non me lo sto di certo inventando – ride. Questo è uno dei fattori che non ci aiuta a comprendere pienamente l’esistenza di disturbi mentali. In realtà ci sono anche delle manifestazioni fisiche di queste malattie: cosa c’è di più fisico di un attacco di panico? Ma questo non significa che chi non soffre visibilmente di attacchi di panico non abbia un disturbo. È difficile capire e accettare che ci siano delle cause invisibili che provocano dolore e malessere, ci si deve anche fidare”
Parlando della figura dello psicologo, che cosa fa nel concreto?
“È principalmente una figura di supporto, che ti aiuta a fare ordine nel casino della tua testa. Pratica un po’ la maieutica, ti tira fuori quello che senti dentro. Molti pensano che ti faccia il lavaggio del cervello, che ti manipoli, ma ciò che fa davvero è ascoltare senza dare giudizi, il che è già un enorme aiuto soprattutto per coloro che non hanno qualcuno con cui parlare. Inoltre ti affianca e ti aiuta a superare quegli ostacoli che già tu stesso stai cercando di superare con coraggio e consapevolezza, spiegandoti ciò che senti e facendoti capire perché lo senti. Mi ricordo della Silvia in quarta elementare che soffriva d’ansia senza sapere che cosa fosse: è stata la mia psicologa a spiegarmelo. Aveva dato un nome al caos che avevo dentro”
E se non abbiamo vissuto un vero e proprio trauma è giusto andarci?
“Questo è un altro stigma che riguarda la figura dello psicologo. Secondo me quello che fai con lui è un percorso che prescinde dal singolo episodio traumatico o periodo di malessere: è qualcosa che ti porti dietro per tutta la vita. Al momento io non sono più in cura dalla mia psicologa, ma porto con me tutti gli insegnamenti ricevuti negli anni e mi rendo conto di applicarli inconsciamente nella vita di tutti i giorni. Sapere di poter contare sempre sul sostegno di qualcuno ti fa vivere con maggiore serenità”
Secondo te, in che modo le persone intorno a qualcuno che soffre di disturbi mentali possono essere d’aiuto?
“Già il fatto di essere disponibili fa la differenza. È vero che le persone spesso quando stanno male rifiutano l’aiuto degli altri: nel periodo peggiore della depressione, stavo chiusa in camera al buio senza uscire quasi mai. I mie familiari cercavano di aiutarmi ma quello che mi dicevano mi entrava da un orecchio e mi usciva dall’altro. Però inconsapevolmente è stato fondamentale per me sapere che loro fossero lì. Non ho risposto alle mie amiche per un mese e mezzo ma loro non hanno mai smesso di cercarmi: questo mi ha dato la forza per riprendermi. Ciò che si può fare è essere sempre pronti ad accogliere e ad ascoltare chi sta male, perché spesso anche solo buttare tutto fuori aiuta. Non servono grandi strumenti, anche un piccolo gesto può essere significativo”
Da dove si inizia per sdoganare l’importanza della salute mentale?
“Dalla scuola, perché è lì che crescono i cittadini del domani. C’è la figura dello psicologo, ma il fatto di potersi prenotare allo sportello scrivendo solo le iniziali del nome rimarca il concetto di disturbo mentale come qualcosa da nascondere. Ho iniziato ad apprezzare negli anni i gruppi di auto-aiuto. Basterebbe destinare anche solo un’ora al mese alla fragilità e alle problematiche dei ragazzi. In passato avrei voluto confrontarmi con i miei compagni di classe: passiamo 5 anni insieme e capita di non sapere nulla delle difficoltà che stanno affrontando. Servono degli spazi dove sentirsi liberi di parlare di questi argomenti e dove ci si può aiutare a vicenda: a volte basterebbe solo sapere che anche altri hanno vissuto quello che stiamo vivendo noi ora. A dirla tutta, il problema più grande legato alla salute mentale è proprio questo: sentirsi soli”
Vuoi dire qualcosa a tutte quelle persone che soffrono e che non riescono a dirlo?
“Trovate il coraggio di parlarne. Non abbiate paura di ammettere a voi stessi e agli altri di aver bisogno di aiuto: non è un segno di debolezza ma uno degli atti più coraggiosi che si possano fare. Troverete sempre qualcuno disposto ad aiutarvi e ad ascoltarvi e, per quanto sembri difficile da compiere, dopo questo passo è tutto più semplice. La luce al fondo al tunnel c’è: l’importante è avere la forza per uscirne”