In Italia il lavoro si mangia la vita stessa? La deriva culturale che dobbiamo arrestare
Quando il lavoro diventa tutto quello che sei c’è qualcosa che non funziona: purtroppo è quanto sta accadendo sempre più di frequente in Italia
Un aforisma di Voltaire, famoso filosofo illuminista, recita così: “Il lavoro allontana da noi tre grandi mali: la noia, il vizio e il bisogno”. Ma se Voltaire fosse vissuto in Italia nella nostra epoca, avrebbe aggiunto un quarto “grande male” al suo elenco: la vita stessa. Ed è quello che sta accadendo ai lavoratori del nostro Paese, che decidono ogni giorno di rinunciare alla propria vita privata sostenendo turni di lavoro sempre più lunghi ed impegnativi. Ma siamo sicuri che non si tratti spesso e volentieri di una libera scelta dello stesso dipendente?

SIAMO IL LAVORO CHE FACCIAMO
Che impatto ha il lavoro sulla nostra identità personale? Di regola, la nostra professione non dice nulla sulle persone che siamo. Nei migliori dei casi, può corrispondere ad una nostra passione, ma sarebbe riduttivo se venissimo definiti valutando soltanto l’aspetto professionale. Ma nel momento in cui tendiamo a misurare il nostro valore unicamente in base ai successi lavorativi che raggiungiamo, non c’è più differenza tra quello che siamo quando ci troviamo in ufficio e quando invece usciamo fuori. Questo succede anche perchè le ore trascorse al lavoro “risucchiano” completamente il nostro tempo libero, lasciandoci a malapena l’opportunità di dormire. E se dormiamo, lo facciamo con uno scopo ultimo ben preciso: avere energie per lavorare il giorno dopo.
HUSTLE CULTURE: REALIZZARSI NEL LAVORO PER FARLO NELLA VITA
Per questo la cosiddetta “hustle culture” è una realtà preoccupante per numerosi lavoratori italiani. Il pensiero di fondo è semplice: più ore trascorri a lavorare, più sarai celebrato sotto il punto di vista sociale. Così gli affetti, la cura di sè e in generale la vita privata diventano sacrificabili e le pause del lavoro una vera e propria sconfitta. Le persone che supportano questa mentalità lavorativa alienante sono portate a competere in maniera ossessiva con loro stesse e con gli altri, allo scopo di raggiungere risultati lavorativi che col tempo si fanno sempre più insostenibili. É importante ricordare però che, a prescindere dalle politiche aziendali e dalle questioni sorte attualmente su questo tema, un comportamento di questo tipo è rimesso unicamente al dipendente. Ciò che preoccupa ancora di più è che non si tratta di riconoscere di star compiendo un sacrificio e di decidere di farlo ugualmente: questi lavoratori vedono nello sforzo del loro durissimo lavoro lo scopo della propria esistenza.
Yup, me getting out of bed shows #hustle alright. Irritating, painful, inhuman-strength-requiring hustle. Bleh.#hustleculture #chronicillness #spoonie pic.twitter.com/9cRdjIyYZV
— Natasha Tracy (@natasha_tracy) June 21, 2022
LA SINDROME DI BURNOUT: QUANDO IL LAVORO DIVENTA MALATTIA
Con questi presupposti, nemmeno la retorica del lavoro dei propri sogni regge. E chi decanta la sua passione tramutata nel mestiere perfetto potrebbe in realtà star nascondendo qualcosa di molto più grande. La sindrome di Burnout dipende dalla risposta che uno ha di fronte ad una situazione lavorativa logorante dal punto di vista psicofisico. Il soggetto affetto dalla Burnout, insoddisfatto del proprio operato, si crea una routine così stressante da arrivare a non reggerla più. Col tempo, si ha un distacco mentale sia dal proprio lavoro, che diventa una pura azione meccanica, sia dalla propria vita personale, caratterizzata da una significativa difficoltà nel rapportarsi con gli altri. Può dipendere da molti fattori, come la propria posizione lavorativa, le aspettative e l’organizzazione stessa del lavoro. Questa sindrome se non trattata tempestivamente può portare all’abuso di alcol e droghe, all’autolesionismo e alla depressione.