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Liverpool (non) tifa Inghilterra

Il motto “Scouse not English” non è solo una provocazione calcistica: racconta una parte profonda dell’identità di Liverpool. Un sentimento di distanza e, in alcuni casi, di vera e propria ostilità nei confronti della nazionale inglese che affonda le radici nella storia sociale, politica e culturale della città.

Liverpool è sempre stata diversa. La sua geografia la avvicina più all’Irlanda che a Londra, e l’ondata di immigrazione irlandese dell’Ottocento, legata in particolare alla carestia delle patate, ha dato alla città una connotazione culturale peculiare, distante dalla tradizionale identità britannica. Porto internazionale, crocevia di commerci e comunità provenienti da tutto il mondo, Liverpool ha sviluppato un senso di appartenenza distinto, spesso percepito come “altro” rispetto al resto del Paese.

Questa differenza si è accentuata in maniera drammatica tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80. La stagione del thatcherismo, con le sue politiche percepite come punitive verso le città industriali, le rivolte urbane bollate come “riots” dalla stampa nazionale, l’avanzata del movimento socialista Militant, la crisi sociale legata alla droga, le tragedie sportive di Heysel e soprattutto di Hillsborough hanno rafforzato la convinzione dei cittadini di essere stati abbandonati o, peggio, criminalizzati dal governo e dall’opinione pubblica britannica. Non a caso, nel lessico politico di quegli anni Liverpool era definita una “città ribelle”, un luogo sotto osservazione e diffidenza.

Hillsborough, in particolare, ha segnato una ferita profonda: la lunga battaglia per la verità e la giustizia, ostacolata da insabbiamenti e narrazioni distorte, ha cementato un senso di sfiducia verso le istituzioni nazionali e i media, accentuando la distanza emotiva e identitaria.

Questo sostrato storico si riflette ancora oggi nel calcio. L’assenza di giocatori del Liverpool nelle recenti convocazioni della nazionale non ha suscitato particolare clamore tra i tifosi locali: segno di un disinteresse diffuso verso le sorti dell’Inghilterra. Qui in Italia quando Juve, Inter o Milan non forniscono giocatori alla Nazionale il malcontento salta sempre fuori. Molti sostenitori dei Reds, invece, non si riconoscono nei Tre Leoni, al punto da vivere con indifferenza – o persino con una punta di compiacimento – le sconfitte della nazionale. Episodi come i fischi all’inno nazionale prima delle finali di coppa ne sono la manifestazione più visibile.

Eppure non si tratta solo di calcio. Liverpool è percepita e si percepisce come una città “in opposizione”: culturalmente più irlandese e internazionale che inglese, politicamente distante dai governi conservatori e dalle scelte della maggioranza nazionale, socialmente marchiata da pregiudizi e stereotipi. “Scouse not English” è la rivendicazione di un’identità costruita nel sentirsi esclusi, trasformata in orgoglio.

Non mancano, ovvio, gli abitanti e tifosi di Liverpool che si sentono inglesi e tifano per la nazionale, ma la narrazione dominante resta quella di una comunità che ha scelto di essere sé stessa anche a costo di restare ai margini del racconto nazionale. Nel calcio, come nella vita civile, Liverpool continua a guardare a sé stessa prima che all’Inghilterra.

✍️ Alan Conti 

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