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Femminicidi, quello che il governo (non) fa per fermare la violenza

“(…) Non è colpa tua, mamma, non è stata nemmeno mia.

Sono loro, saranno sempre loro.

Lotta per le vostre ali, quelle ali che mi hanno tagliato.

Lotta per loro, perché possano essere libere di volare più in alto di me.

Combatti perché possano urlare più forte di me.

Perché possano vivere senza paura, mamma, proprio come ho vissuto io.

Mamma, non piangere le mie ceneri.

Se domani sono io, se domani non torno, mamma, distruggi tutto.

Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima.” 

(Cristina Torre Cáceres)

“Esci la sera? Non rientrare da sola”.

“Sarei da sola ed è buio, piuttosto non esco”

“Mandami la tua posizione così so dove sei”

“Vorrei lasciarlo ma ho paura che la prenda male”

Sembrano delle accortezze di poco conto, precauzione che è meglio prendere piuttosto che non farlo. Domande, perplessità, dubbi su che cosa sia giusto fare e che cosa sia meglio evitare per non correre rischi.

Eppure si parla di normali attività della vita quotidiana: uscire la sera con gli amici, passeggiare da sole, capire quando una relazione è ormai finita e non c’è più niente da fare che lasciarsi. 

Che rischi si potrebbe correre nel vivere la normalità?

Ma soprattutto, se parte della popolazione sente di dover arrivare a prendere delle precauzioni anche solo per poter uscire di casa, le istituzioni dove sono?

Precauzioni per situazioni normali

Perchè le precauzioni si prendono per fronteggiare situazioni che altrimenti non avremmo modo di controllare, casi in cui davvero si sceglie di correre un rischio che non si potrebbe ridurre in altro modo, né tantomeno azzerare. Situazioni per le quali si è fatto tutto quello che si poteva fare e che non ci resta che vivere con cautela e attenzione.

Non c’è futuro per una società che vede la violenza di genere e i femminicidi come un danno collaterale di situazioni su cui non può avere alcun tipo di controllo. 

E Non regnerà mai la pace e la sicurezza in un Paese capitanato da soggetti che ammettono pubblicamente di non saper più che cosa fare per impedire che le donne subiscano violenza e vengano uccise per il solo fatto di essere donne.l

Istruire i più piccoli

Le donne chiedono una rivoluzione che parte dal basso, che affonda le radici nell’insegnamento al rispetto dell’altro, alla scoperta delle proprie emozioni e alla validazione e gestione delle stesse. Si parla di istruire i più piccoli all’ascolto di chi sta loro intorno, dei loro desideri e volontà. Tracciare fin dall’infanzia il confine tra la propria libertà e quella degli altri, così da potersi fermare davanti ai “no” di qualcuno del quale riconosciamo il diritto ad esigere rispetto.

Tutto ciò permetterebbe ai giovani di crescere con un sistema valoriale sano fatto di rispetto e uguaglianza e questo contribuirebbe pian piano a cambiare le sovrastrutture culturali che vedono le donne inferiori rispetto agli uomini. 

Un’iniziativa fondamentale, non l’unica che si ritiene possa fare la differenza ma sicuramente la più efficace per permettere ai bambini di approcciarsi per la prima volta al mondo del rapporti con gli altri nel modo più corretto possibile.

La scelta alle singole scuole

Il Governo però proprio non ne vuole sapere di istituire programmi obbligatori di educazione sessuale-affettiva e preferisce lasciare ai singoli presidi e ai dirigenti scolastici la scelta se attuarne uno o meno nel proprio istituto, dando loro carta bianca sulle tematiche da trattare, la durata del percorso e sugli obiettivi da raggiungere con questo insegnamento. 

Decidere di non intervenire in maniera omogenea sul territorio nazionale significa non voler prendere pubblica consapevolezza della patologia culturale che caratterizza il nostro Paese in questo periodo. Evitare di riconoscere particolare gravità al problema della violenza di genere smarca le istituzioni dalla responsabilità di prendere dei seri provvedimenti sul punto. 

C’è addirittura chi fa della sofferenza e dell’omicidio di queste donne uno strumento per spostare l’attenzione su altre questioni: un tentativo del Governo di non prendersi le responsabilità che gli spettano, evitando nuovamente di sottoporsi ad un esame di coscienza che arriverebbe a mettere in discussione la direzione di un intero Paese, attualmente estremamente consapevole di quello di cui avrebbe bisogno.

Le parole di Nordio

Le parole del Ministro della Giustizia Carlo Nordio sul duplice femminicidio degli ultimi giorni ne sono un chiarissimo e preoccupante esempio.

Davanti all’uccisione brutale di Sara Campanella ed Ilaria Sula ad opera rispettivamente di Stefano Argentino, il quale la perseguitava da anni nonostante i ripetuti rifiuti da parte della ragazza, e di Mark Samson, ex fidanzato della vittima incapace di accettare la fine della loro relazione, ci si sarebbe aspettati quantomeno qualche parola di sentito cordoglio. Un dolore non fine a se stesso, ma carico della consapevolezza di dovere e potere agire per impedire che in futuro si debbano piangere altre donne uccise per mano di un uomo. Il ministro della Giustizia invece risponde all’accaduto con rassegnazione e arrendevolezza, sottolineando come “il legislatore e la magistratura possano arrivare entro certi limiti a reprimere questi fatti”. Un’alzata di spalle da parte del Governo, ormai convinto di aver fatto tutto quello che era in suo potere per contrastare questa emergenza culturale e sociale. Il ministro con questa affermazione si riferisce all’approvazione del disegno di legge che ha previsto l’istituzione della fattispecie di reato di femminicidio (sanzionato con la pena fissa dell’ergastolo), l’aumento delle pene per i reati da Codice Rosso e l’introduzione di nuovi obblighi che concernono l’ambito del processo penale. 

Emerge così l’atteggiamento carcer-centrico della politica, che non ha altro da offrire alle donne in pericolo se non pene più severe per coloro che le maltrattano, le violentano o le uccidono. 

Se c’è pena c’è stata violenza

Ma se pene più gravose vengono applicate significa che una violenza a danno di una donna c’è già stata e spesso questo significa piangere una vittima di femminicidio in più. E una pena esemplare per l’aggressore, per quanta giustizia possa fare, non sarà mai al pari di una vita spezzata.  Mi rendo conto che se si guarda al solo strumento penale come soluzione alla violenza di genere, resti ben poco da fare da parte delle nostre istituzioni.  A questo punto sarebbe stato più dignitoso riconoscere la necessità di fare ricorso ad altre soluzioni, che non vengano in essere quando non resta che punire i colpevoli ma che agiscano sull’educazione di coloro che altrimenti un giorno potrebbero diventarlo. 

A volte basterebbe rendersi conto di non aver fatto le scelte migliori, senza negarsi la possibilità di rimediare all’errore. Ma il discorso del ministro non prosegue purtroppo in questo senso, il quale finisce per puntare il dito contro “etnie” che “non hanno la nostra sensibilità verso le donne”. 

Quale sensibilità?

Vorrei sapere quale sarebbe la sensibilità, secondo il ministro Nordio, di Daniele Bordicchia, la guardia giurata che il 5 gennaio ha ucciso con la sua pistola d’ordinanza Eliza Stefania Feru, sparandole due colpi di pistola per poi togliersi la vita. Oppure quella di Lorenzo Innocenti, assassino di Eleonora Guidi, che ha ucciso la moglie con 24 coltellate alla schiena, al collo e al petto mentre stava preparando il caffè con accanto il figlio di appena un anno. Dello stesso Stefano Argentino, il conoscente della giovane Sara Campanella, che nei giorni scorsi l’ha uccisa tagliandole la gola in pieno giorno alla fermata dell’autobus. Sono solo alcuni dei nomi dei nostri ragazzi, di quelli sensibili.

Se la politica è al servizio dei cittadini com’è possibile avere l’impressione che il ministro Nordio, con queste parole, abbia pubblicamente ammesso di non conoscere nemmeno le storie delle donne che tanto dice di aver cercato di proteggere?

I nostri ragazzi sensibili fanno violenza sulle donne. Le denigrano, le aggrediscono, le reputano come inferiori e le trattano come oggetti di loro proprietà, incapaci di decidere per loro stesse. A volte, i nostri ragazzi sensibili le ammazzano. Per rendersene conto basterebbe conoscere le storie. Non solo quelle dai tragici epiloghi che finiscono sulle pagine dei giornali, ma anche quelle che si celano dietro le denunce presentate alle forze dell’ordine, quelle che docenti e presidi sentono vociferare tra i banchi di scuola, quelle che ogni giorno ci capitano sotto gli occhi e che dovremmo imparare sempre di più a degnare della nostra attenzione.

A volte tutte queste storie formano un coro di voci unico capace di farsi sentire persino dalle piazze di tutta Italia. Il luogo dove con maggior serietà si è discusso ultimamente della violenza di genere. 

Altre volte sono sussurrate, confessate a fatica per la paura che non vengano prese sul serio.

Basta saper ascoltare

Caro ministro Nordio, basterebbe saper ascoltare quelle storie per rendersi conto che tra tutte c’è un comune denominatore sul quale si può ancora intervenire. 

Che la sensibilità che per cultura dovrebbe esserci propria è il dito perfetto dietro al quale nascondersi per relegare la violenza di genere ad un fattore estraneo a ciò che siamo e che possiamo correggere. 

Non si tratta di contrastare una minaccia che viene dall’esterno, ma di mettere in discussione un retaggio culturale che si riversa sul modo in cui veniamo cresciuti e socializzati. Una parte di noi del quale dobbiamo ritenerci responsabili per poterla cambiare. 

Fare speculazioni sull’origine della violenza contro le donne, evitando di assumersi le proprie responsabilità, non solo non contribuisce a fermarla, ma le dà la possibilità di continuare ad agire indisturbata.

A furia di non farci un’esame di coscienza, ce la siamo sporcata con il sangue.

✍️ Benedetta Conti 

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