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Caterina Gabanella nei teatri altoatesini: “Qui torno bambina”

Dal 2 al 5 novembre 2025Operaccia Satirica porterà l’ironia corrosiva di Paolo Rossi e della sua compagnia sui palchi altoatesini: Merano (Teatro Puccini)Bressanone (Forum)Vipiteno (Teatro Comunale) e Brunico (Nobis). Tra i protagonisti c’è anche Caterina Gabanella, attrice bolzanina ormai parte stabile del gruppo di Rossi, capace di muoversi con grazia tra teatro, cinema e psicologia. Con lei abbiamo parlato di ritorni, disciplina, libertà e della “magia dell’imprevisto”.

Torni a Bolzano con Paolo Rossi, ma torni anche a casa. Cosa significa per te riportare sul palco, nella tua città, un percorso artistico che in fondo nasce proprio qui — tra sport, disciplina e poi teatro?

Ci siamo venuti già altre volte, ma ogni volta è diversa, è come un ritrovarsi. Questa città, protetta dalla sua corona di monti, è stata la culla della mia infanzia e adolescenza. Tornando, quel passato riaffiora sempre. Ho la sensazione di compiere un cerchio che però non si chiude mai del tutto, ma prende sempre più la forma del cerchio… come se tutto stesse tornando al suo posto. Più vado avanti, più mi sento vicina alla bambina che ero. Bolzano per me è il ghiaccio, la fatica, la disciplina. Tornarci con il teatro è come portare la parte più viva e imperfetta di me nel luogo dove tutto era rigore — e ricordarmi che, prima di quel rigore, qui è vissuta anche una bambina iperattiva, giocherellona e allegra. È un ritorno pieno di gratitudine, ma anche di domande nuove.

Operaccia Satirica è uno spettacolo che mescola ironia, improvvisazione e psicologia. Quanto c’è di te, psicologa e attrice, nella costruzione del tuo ruolo?

In Operaccia Satirica non porto in scena una “paziente”, ma una psicologa. Una psicologa molto umana, che analizza troppo ma si lascia anche travolgere. Dentro di lei ci sono io certamente, le mie due nature: la riflessiva psicologa e l’emotiva attrice. Uso la psicologia per osservare, capire, mettere ordine… e poi, sul palco, lascio che tutto si mescoli e diventi carne, voce, presenza. L’idea di fare questa “psicoterapia col pubblico” nasce dal rapporto di comprensione umana che è nato con Paolo Rossi. Scriviamo molto insieme, ci confrontiamo su tutto e, oltre a contribuire alle idee, spesso faccio un po’ d’ordine nel suo caos magistrale. Rendere fruibile il caos creativo è un gioco meraviglioso — e sì, a volte mi sento davvero una psicologa mentre lo faccio, perché serve molto tatto. E poi, quello che viene fuori, è sempre inaspettato: mi rendo conto che follia e lucidità stanno davvero molto vicine, esattamente come pianto e risata.

Lavori con Paolo Rossi da diversi anni e sei ormai una delle sue presenze più costanti. Cosa hai imparato da lui, dentro e fuori dal palco?

M’ha insegnato che prima dell’attrice viene la persona. Io sono il mio strumento di lavoro, quindi devo avere cura di me: non tanto dal punto di vista estetico, ma nei pensieri, nelle scelte, nelle frequentazioni. Ogni giorno, ogni incontro, ogni mostra vista, ogni libro letto fa parte del lavoro. Crescere come persona vuol dire crescere come attrice. Con lui ho capito che la libertà sul palco (esattamente come nella vita) non è fare ciò che si vuole, ma saper ascoltare davvero quello che accade, e accoglierlo anche quando non è previsto. Insomma, mi ha insegnato che il mestiere dell’attore non è solo interpretare, ma restare vivi — e curiosi — in scena e nella vita.

Hai raccontato spesso che il teatro è stata la naturale prosecuzione del tuo lavoro sull’animo umano. In che modo la tua formazione in psicodramma continua a influenzare la tua recitazione?

Lo psicodramma mi ha insegnato che ogni ruolo, ogni personaggio, è un “sé possibile”, un frammento che può essere attraversato senza giudizio. Quando recito infatti, non cerco solo di imitare qualcuno: provo a entrare in risonanza con qualcosa di umano che riconosco, che è già lì dentro di me e aspettava solo di essere risvegliato. M’ha insegnato anche il valore del “qui e ora”: in scena parto sempre dall’ascolto — dell’altro, del pubblico, del momento presente. Posso dire che lo psicodramma mi ha dato la consapevolezza che il teatro può essere una forma di cura, ma non nel senso terapeutico… nel senso che, per un attimo, permette a tutti di respirare insieme, di essere veramente presenti e di uscire dall’abitudinario.

Dopo il pattinaggio artistico e la carriera sportiva sei passata al palcoscenico. C’è un filo invisibile che lega la disciplina dell’atleta alla verità dell’attrice? Come vivi oggi l’oscillazione tra il perfezionismo sportivo e l’imperfezione creativa del teatro?

In realtà, la disciplina toglie verità. Dopo aver smesso di pattinare sono stata molto indisciplinata; e oggi credo di essere una via di mezzo, sto in continua oscillazione, ma sicuramente m’è rimasto un rigetto inconscio per l’eccesso di disciplina. Infatti, quando divento troppo ligia, il mio inconscio si ribella e mi sveglia con inaspettati atti di libertà. Sono una perfezionista nell’anima, credo di esserlo da sempre. Il perfezionismo ha a che fare con quanti dettagli riesci a vedere quando guardi una cosa. Io, a volte, ne vedo così tanti che perdo il senso dell’insieme. Ho capito che quando mi parte il perfezionismo devo dimenticarmi di me e fidarmi di qualcun altro. È un’arma a doppio taglio: può far bene, ma anche bloccare. Per vivere bene — e per recitare bene — è molto più importante saper giocare con gli imprevisti e usarli a proprio favore. Secondo me la verità sta nelle imperfezioni e negli imprevisti, idem la simpatia e la vera bellezza.

Nel film R.I.P. interpreti Lara, un personaggio che affronta la morte con ironia e poesia. Come ti sei avvicinata a un tema così delicato — e cosa ti ha lasciato questo ruolo?

Il film affronta temi profondi come il lutto e la possibilità di rinascere dopo la perdita. Lara, in parte, è una donna arrabbiata per un dolore che non riesce a superare, ma grazie all’incontro con un personaggio strambo — il protagonista, mosso e “posseduto” da diversi fantasmi — riesce lentamente ad aprire il cuore. È un personaggio bellissimo, e mi sarebbe piaciuto avere più spazio per raccontarlo. Credo che di Lara arrivi la sua vibrazione, la sincerità, quel modo istintivo di reagire alla vita anche quando fa male. R.I.P. è l’opera prima di Santa De Santis e Alessandro D’Ambrosi, una coppia artistica molto equilibrata e precisa. Sapevano esattamente ciò che volevano e hanno rispettato la sceneggiatura alla virgola. Sono molto lontani dal mio modo d’essere, ma mi sono adeguata volentieri, perché lavorano con grande cura, amore e professionalità — e anche i colleghi erano stupendi. Hanno dato alla luce un’opera prima che rispecchia davvero le loro anime, e io sono felice di averne fatto parte.

Tra teatro e cinema ti muovi con grande naturalezza. Quali sono per te le principali differenze — emotive o tecniche — tra il “qui e ora” del palco e il tempo sospeso del set?

Per me il “qui e ora” vale per entrambi. Sia il teatro che il cinema ti chiedono presenza, solo che l’energia è diversa. A teatro è un’esplosione vibrante che si consuma insieme al pubblico, in quell’unico momento irripetibile. Sul set, invece, è un dialogo intimo: una piccola bolla di verità in mezzo alla confusione della troupe. Vale nel momento presente, ma può essere rifatto — ogni volta con una sfumatura diversa. La cosa che amo del teatro è che non ci sono filtri; purtroppo (e a volte per fortuna), al cinema ce ne sono molti. Della prestazione reale lo spettatore vede solo una piccola parte: l’emozione dell’attore passa attraverso il gusto del direttore della fotografia, le scelte del regista e la “musica interiore” del montatore. Per essere davvero soddisfatti, al cinema, bisogna sentirsi amati e in sintonia profonda con tutta la squadra. Non so se sia una congiunzione stellare o solo il momento giusto — ma la sensazione è quella.

Vivi a Trieste, ma le tue radici sono a Bolzano. Come senti oggi il legame con la tua terra? E in che modo, secondo te, l’Alto Adige entra nei tuoi personaggi o nel tuo modo di guardare il mondo?

Vivo a Trieste perché ci ho fatto delle prove teatrali e me ne sono innamorata: della città, degli scrittori che ci sono passati, del mare, del vento… di quel confine così diverso dal nostro. È un luogo molto interessante, mi piace starci — ma non è casa mia. In realtà sono sempre in viaggio. Mi sento un po’ senza fissa dimora: forse il posto dove sto più in pace è il treno, quando scorro verso un’esperienza nuova. Per me il movimento, nella vita, è tutto. Tornare a casa in questi giorni è stato bello anche perché ho conosciuto il gruppo di lavoro meraviglioso di On Fire 2026. Per me, da ex sportiva, è emozionante far parte di una cosa simile — come un cerchio che si chiude: il pattinaggio, lo sport e l’arte che finalmente si incontrano. E poi tornare a Bolzano in autunno è una goduria: fare le Passeggiate di Sant’Osvaldo appena sveglia e prendere la funivia per il Renon è impagabile. Amo profondamente le mie radici: casa mia mi ricarica dagli occhi. In tutto quello che faccio c’è la mia terra. Sono una bambina che ha giocato nel bosco e nel fango, sui fiumi ghiacciati; resisto al freddo e so fare fatica, perché sono abituata ad andare in salita. Questo viene dalle radici — dalla mia terra.

Hai parlato spesso della “magia dell’imprevisto”. È una filosofia anche di vita o solo un metodo di lavoro?

All’inizio dell’università ho visto Yes Man e ho cominciato a dire più spesso “sì”: alle occasioni, agli incontri, persino a ciò che non avevo previsto. Approfondendo gli studi, leggendo e ascoltandomi, ho capito che noi crediamo di scegliere tutto… ma non è proprio così. L’inconscio ha un modo tutto suo di guidarci, a volte anche attraverso i suoi scherzi. Cerco di stare nella luce, di usare bene l’immaginazione e il dialogo interiore, ma anche di restare in ascolto dell’ambiente, accogliendo quello che arriva — anche quando non corrisponde all’idea che ne avevo. L’imprevisto, per me, è la parte più viva del destino. E finora, le cose più belle mi sono capitate quasi per caso… come se la realtà, a volte, andasse oltre la mia fantasia.

✍️ Alan Conti 

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